29 ottobre 2017

"Robinson, La Repubblica"

La mia vita con Doris

In gratitudine di Jenny Diski (NN)

Intenso, straziante: In gratitudine (traduzione di Fabio Cremonesi, NN) di Jenny Diski (1947- 2016) è un memoir  indimenticabile, a cavallo fra il Requiem e lo Stabat Mater, che mescola un «diario del cancro» ai ricordi di un’adolescenza difficile, passata in casa di Doris Lessing, che l’aveva presa in affido a quindici anni. Una combinazione potente da cui è impossibile uscire illesi.

Diski è una scrittrice che ha sempre parlato di sé: «Parto da me, e molto spesso finisco con me. Non ho mai sentito di dovermi scusare, non ho mai sentito la mia scrittura come “confessionale”. Di cos’altro dovrei scrivere se non di quello che so e non so del mondo?» Quando arriva la diagnosi e capisce che avrà davanti solo un paio di anni («La batteria del telecomando della tv si scaricherà prima? Di quanti centimetri crescerà la betulla bianca?»), non può che affrontare la tragedia nell’unica maniera che conosce. Il primo problema che si pone è quello di evitare i cliché legati a un diario sul cancro. E ci riesce, grazie a una «tremenda accuratezza» – sono le parole usate dalla Lessing per descriverla in Memoria di una sopravvissuta, nel personaggio di Emily – e a un’idea di letteratura molto contemporanea, che sfugge alle gabbie di qualsiasi genere tradizionale, all’autobiografia come alla biografia.

Del resto, anche il suo rapporto con Doris sfugge a qualsiasi classificazione: «non ero mai riuscita a trovare una parola che indicasse in maniera corretta e succinta il suo ruolo nella mia vita, per non parlare del mio ruolo nella sua». Doris non è sua madre, è una scrittrice che accoglie una ragazza difficile, allontanata dai genitori, appena uscita da un manicomio, dopo un tentativo di suicidio. Per farla studiare.

Jenny gira «in punta di piedi per una casa che non è la tua», cercando di rendersi «invisibile e inudibile». Si trova a cena con grandi intellettuali, e deve imparare a misurarsi con loro («Leggevo come un’aspirapolvere, risucchiavo di tutto»). E’ intelligentissima, ma questo non basta a far funzionare il rapporto con la Lessing, che non è capace di avere una vita emotiva («Oh, avrebbe detto Doris a chiunque si trovasse in qualsiasi tipo di difficoltà emotiva, perché le persone non riescono a essere semplicemente razionali? Una volta o due le risposi urlando: perché siamo persone. La risposta non le interessò affatto»). Quando ci sono dei problemi, si limita a lasciarle delle lettere sul tavolo della cucina e a sparire nel suo studio (sulla porta chiusa il cartello: «sto lavorando, non disturbare»).

Le pagine sulla Lessing sono impietose e magnifiche. Una donna che abbandona due mariti e due figli e parte per Londra solo con il terzo, Peter, con cui ha un rapporto agghiacciante, morboso. «Peter è il grande enigma nella storia di Doris», racconta. Non ha una vita sua, un lavoro o una relazione, abita con la madre fino alla morte (un mese prima di lei), senza mai uscire di casa: «visse più o meno da recluso, assistendo e sostenendo la sua carceriera». Si identifica talmente con lei da usare il «noi» parlando dei suoi libri, editori o agenti. Passa il pomeriggio a guardare la televisione o a letto, sempre più grasso, diabetico. «La sua asocialità divenne allarmante», racconta Diski, «girava senza pantaloni né mutande, cagava dove gli pareva, maltrattava le donne o chiunque gli capitasse a tiro, divenne insomma il bambino mostruoso che qualcuno (lui stesso o Doris) aveva voluto che fosse».

Viene da chiedersi: cosa ha salvato Jenny? Sicuramente la scrittura. Ma anche la sua rabbia, la sua ingratitudine, forse. «La gratitudine era solo la metà di ciò che provavo. L’altra metà era rabbia e risentimento, un residuo di tutto il caos precedente (…). Ma c’era anche una notevole quantità di collera nel dover essere grata, nel doverlo essere sempre di più, era un conto che non si chiudeva mai». Con questo libro lo ha chiuso.

Indietro