27 aprile 2013

"il Fatto Quotidiano"

La saga dei Melrose, il ritratto dell’upper class inglese

Ci sono dei libri di cui t’innamori follemente e, come succede negli innamoramenti, la faccenda diventa un’ossessione. Quindi vai a cena con qualcuno e nel giro di mezz’ora trovi una scusa per parlare di quello che ti interessa, ovvero dell’oggetto amato, anche se non c’entra niente con il discorso («A proposito, per caso, hai letto…») Sei disposto anche a risultare un po’ ridicolo – l’entusiasmo, chissà perché, oggi viene scambiato spesso per una debolezza, anche se in realtà è una forza – ma il piacere che provi quando gli altri annotano su un foglietto il nome dell’autore e il titolo, ti ripaga di tutto. Del resto, l’amore per i libri (più in generale, l’amore) è così: è gratuito. Quindi a te basta poco.
A me, recentemente, è successo con la saga de I Melrose, un ciclo di quattro romanzi, pubblicato da Neri Pozza, di un autore inglese, Edward St. Aubyn, che in Inghilterra e negli Stati Uniti è già considerato uno dei più grandi narratori contemporanei, non solo dalla critica, ma anche da scrittori come Alice Sebold, Zadie Smith, Nicholls, McGrath e Amis. Insomma, non sono l’unica a pensarla così (per fortuna).
Finalista al Booker Prize, vincitore del Prix Fémina, bestseller nella classifica del Sunday Times e del New York Times, St. Aubyn (classe 1960) era già uscito in Italia con Einaudi, nel 2007, che però aveva tradotto solo il quarto romanzo (operazione editoriale discutibile, perché è impossibile capire qualcosa, senza leggere i precedenti: per amarlo davvero bisogna avere pazienza e procedere con ordine, da pagina 1 a pagina 730).
La saga de I Melrose ha il respiro di un classico, racconta l’upper class (più precisamente un’arrogante e moribonda aristocrazia inglese, avvitata intorno alle sue cerimonie) con la precisione di Proust, l’eleganza di Mann, James e Wilde, l’ironia di Capote o Wolfe. «Il narratore deve scomparire, deve entrare nella testa dei personaggi e usare la loro lingua», mi ha detto St. Aubyn, quando l’ho intervistato a Milano per il Fatto, «per me sono stati importanti ProustI Morti di JoyceRitratto di signora di James e Beckett». Ed è proprio una frase di Beckett, che può sintetizzare il suo lavoro: «In assenza di alternative, il sole splendeva su un mondo sempre identico».
Sì, perché la storia di Patrick Melrose è questo: una lotta impari e disperata contro la sua nascita, una fuga impossibile dai traumi dell’infanzia. Nel primo romanzo, conosciamo Patrick quando ha cinque anni. La bella villa in Provenza dove passano le vacanze i Melrose, fra una festa e l’altra, è in realtà la quinta claustrofobica dove va in scena la tragedia: il padre, David, un aristocratico perverso e malato, abusa del figlio (il racconto della violenza è degno di Visconti o di Bertolucci) e tortura la moglie (vediamo l’ereditiera a quattro zampe in terrazzo, costretta a mangiare come un cane i fichi caduti per terra).

La madre, alcolizzata, è troppo occupata dalle sue fragilità per accorgersi di quello che succede a Patrick che, vent’anni dopo (nel secondo romanzo, ambientato a New York) naturalmente è capace di amare solo l’eroina. Le pagine sulla droga, dove St. Aubyn dà fondo a un grande patrimonio metaforico per restituire le allucinazioni, sono fra le più belle.
Nel terzo siamo nei Costwolds, nel cuore del mondo aristocratico inglese, che da secoli si regge sulla sua stessa futilità. Patrick, ormai trentenne, da poco disintossicato, cerca disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi per non affogare (torna insistente l’immagine della Zattera della medusa di Delacroix). Ma non ha scampo perché, come racconta St. Aubyn, ribaltando il famoso verso di Wilde («ogni uomo uccide ciò che ama»), «ogni uomo tende a trasformarsi in ciò che odia» e Patrick si ritrova prigioniero di una vita simile a quella del padre.
Anche quando diventa padre a sua volta, nel quarto romanzo, nella speranza di lasciarsi il passato alle spalle, i fantasmi continuano a perseguitarlo, facendogli tornare quel disperato bisogno di stordirsi, che lo aveva portato alla droga. A quarant’anni cerca la perdita di sé nel sesso, nell’alcol e nel Tamazepam, non più nell’eroina, ma è uguale. Il rancore, in senso etimologico, cioè qualcosa di rancido che marcisce nell’anima da cui non può uscire, non gli consente di trovare la libertà. Lo spinge piuttosto a «identificarsi con l’aggressore, ad assumere i suoi valori», come spiega St. Aubyn.
L’adesione al calvario di Patrick è totale, e questa coincidenza assoluta, pelle contro pelle, è possibile solo perché dietro c’è una scrittura perfetta e impassibile, che entra come un oggetto esterno nell’animo umano, come una sonda o un sottomarino negli abissi.

«Se vuoi scrivere qualcosa di veramente intimo», conclude St. Aubyn, «scrivi in terza persona».

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