27 agosto 2017

"Robinson, La Repubblica"

L'animale che è in noi

Paradisi minori di Megan Mayhew Bergman ( NN )

Ha una voce originale, intensa e contemporanea, Megan Mayhew Bergman. Nata nel 1979, cresciuta in North Carolina, vive con il marito veterinario, due figlie, quattro cani, quattro gatti, due capre, un cavallo e un numero imprecisato di galline, in una fattoria del Vermont. Il dettaglio biografico non è superfluo per inquadrare la sua prima raccolta di racconti, Paradisi minori (traduzione di Gioia Guerzoni, NN, p. 238), in cui le storie umane acquistano senso attraverso quelle degli animali.
Nel primo racconto, Le arti della casalinga, uno dei più belli, una madre single («In famiglia, sono io che porto a casa i soldi e sono io la casalinga. Preparo i pranzi e cambio le lampadine, le lenzuola e l’olio della macchina») sta viaggiando con il figlio su una strada provinciale per raggiungere uno zoo. Ha perso la madre da un anno e vuole risentire la sua voce, custodita in un pappagallo grigio africano di trentasei anni, Carnie, capace di imitarla anche quando rispondeva ai call center, restituendo le frasi della sua vita solitaria e malinconica. Cosa vendete? Non mi interessa. Il padrone di casa non c’è, è morto. Ma quando lei e il bambino arrivano davanti alla gabbia, Carnie non apre becco. Vuole umiliarla. Vuole punirla. Perché ha lasciato che sua madre finisse in una casa di riposo e non ha nemmeno rispettato il suo ultimo desiderio, cioè prendersi cura di lui.
Il tema della maternità è centrale e ricorrente in questi racconti sottili, pieni di grazia, capaci di ribaltare le prospettive con un’onestà animalesca. In La mucca che si mungeva da sola una donna incinta si lascia fare un’ecografia dal marito veterinario sullo stesso tavolo dove poco prima è stata esplorata la pancia di un rottweiler. Un commovente inno alla nuda potenza della biologia («Spero che venga fuori come una capra, gli dissi. Forte, con gli zoccoli, pronta a mettersi subito in piedi»). In Un’altra storia a cui lei non crederà un’alcolizzata che ha perso il marito e la figlia per colpa della sua dipendenza («Siamo le madri cattive, l’alce e io – io perché bevo, l’alce perché ha abbandonato i suoi piccoli per badare all’ultimo nato») cerca di ritrovare un posto nel mondo lavorando in un rifugio per lemuri. Ma i suoi demoni, o i suoi bisogni, sono più forti, e scapperà nella neve con un aye-aye in via di estinzione nascosto sotto la giacca. In Le balene di ieri una ragazza viene invitata ad abortire dal compagno, un ambientalista fanatico, convinto che la razza umana non debba più riprodursi per consentire alla natura di riprendersi il pianeta, che definisce suo figlio «un’altra vita che produce carbonio». Ma quando lei scopre che le balene, dopo il parto, spingono il piccolo in superficie per farlo respirare, riesce a ribellarsi («Abbassai lo sguardo e vidi la speranza nel mio corpo, la mia stupida, grezza speranza»).
Bergman va letta con una mano sola, quella che serve per reggere un libro, l’altra va tenuta sul pelo del proprio cane o del proprio gatto. Pochi scrittori sanno raccontare così il calore del corpo di un animale. Uno dei racconti più commoventi è Collezioni. Una donna deve scegliere chi abbandonare: l’uomo che ama o i suoi animali. Lui non sopporta la convivenza con loro, sono troppi tre cani, uno cieco, uno epilettico e uno paralizzato, tre gatti selvatici che gridano nella notte, un procione che sbatte la gabbia alle due del mattino, due pecore che devastano il giardino. In risposta, lei si porterà a casa un coniglio sordo, senza un occhio.
Bergman racconta ambienti rurali e selvatici, dove non c’è quasi nulla. Che siano paesi sperduti del Nord o del Sud, affacciati sul mare o su una palude, non conta. Conta il rapporto viscerale con la natura. Non sempre benigna. Mondi selvaggi in cui almeno «non c’è finta galanteria, finta gentilezza», fra orsi, alligatori, coyote. «Ma nulla era più feroce e selvaggio di me. Ero furiosamente viva», dice la protagonista di Uccelli di un paradiso minore. Anche la scrittura di Megan Bergman è così: feroce, selvaggia, furiosamente viva.

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