18 giugno 2017

"Robinson, La Repubblica"

I tanti volti della fame

Sette tipi di fame di Renate Dorrestein ( Guanda )

Si divora. Ecco il verbo giusto per Sette tipi di fame (traduzione di Laura Pignatti, Guanda) della scrittrice olandese Renate Dorrestein. Un romanzo che non lascia nessuna parola al caso: tutto riguarda il cibo, dalla prima all’ultima riga, è quasi un gioco stilistico che fa da specchio all’ossessione contemporanea per l’alimentazione.
La storia è ambientata nell’Istituto William Banting, costosissima clinica per dimagrire, frequentata da uomini grassi e potenti, costretti a sudare sul tapis roulant e a mandare giù solo zuppette di verdura spolverate di quinoa. I proprietari sono Nadine e Derek, una coppia di sessantenni senza figli che hanno costruito la loro fortuna così e si dedicano all’istituto, la loro preziosa creatura, come ci si dedica a una famiglia.
Peccato che questo sia un romanzo olandese e i romanzi olandesi – basta pensare a autori come Herman Koch o Arnon Grunberg – non fanno altro che raccontare una società fin troppo civile, fin troppo perfetta, che inevitabilmente tende all’implosione.
Quindi, nel giro di una settimana, anche il patinato mondo di Nadine e Derek, costantemente ridipinto, sorretto da regole ferree che in trent’anni non hanno mai portato a un fallimento, è destinato a sfaldarsi come il più fragile degli edifici. «Il tuo mondo può crollare anche senza cambiare aspetto», scrive Renate Dorrestein.
Mentre Derek, che ha nascosto alla moglie i debiti insostenibili della clinica, va in Islanda per un congresso, con la segreta speranza di salvare la situazione, Nadine investe un senzatetto. E’ appena stata fermata per guida in stato di ebbrezza, ha il terrore di essere denunciata, quindi si porta il clochard a casa e lo spaccia per un cliente. Come se non bastasse, un ricco produttore chiede di poter venire con la figlia. E solo quando lo vede arrivare, Nadine scopre che la ragazzina è anoressica. L’equilibrio di quel luogo irreale è già rotto. La fame, con i suoi risvolti più tragici, è entrata con prepotenza.
«Esistono sette tipi di fame», scrive Renate Dorrestein. C’è «la fame che viene dagli occhi», «la fame che arriva dal naso attraverso i profumi», «la fame che entra dalle orecchie», «la fame della bocca», «la fame della testa» che «ha a che fare con i condizionamenti, i comportamenti inveterati e le regole» e «la fame del cuore», «chi ha il cuore affamato mangia per tappare un buco che ha dentro».
L’ottava fame, raccontata dal romanzo, è una fame sociale: una specie di mania collettiva occidentale che porta la gente a fotografare i piatti e a postarli su Facebook («con ciò che mangiano vogliono evidentemente far vedere chi sono o chi sperano di essere»), a fare cento chilometri per un ristorante stellato, a visitare un mercato invece di una cattedrale, a sapere «più di olio d’oliva e formaggi e delle proprietà del sale di mare integrale che delle pagelle dei loro figli». «Metti insieme un uomo e una donna, e ben presto viene fuori la domanda: Dove andiamo a mangiare?» E questo, mentre la fame di cui si muore in tutto il resto del mondo, viene definita dalle Nazioni Unite «insicurezza alimentare», perché il termine è imbarazzante, politicamente scorretto.
Ma questa fame sociale ha le sue incoerenze. Si pensa solo al cibo e poi «i magri hanno più peso dei grassi». Si pensa solo alla salute e «le logiche conseguenze di decenni di attenzione all’alimentazione» sono gli anziani, perché «nessuno tira più le cuoia per tempo». Un mondo così sano da diventare malato. Per esempio nei rapporti umani, se si gratta un po’ sotto al benessere fisico: «Ci vogliono settimane, addirittura mesi, perché uno stomaco finalmente si restringa. La fiducia invece si riduce all’istante, si trasforma in una piccola sfera durissima».
La parte finale del romanzo è debole, un po’ troppo grottesca, ma la scrittura di Renate Dorrestein ha un ritmo favoloso. Porta il lettore alla bulimia. E il tema, originale e attuale, meritava un libro. Da portarsi al mare, magari, per non fare troppe storie alla prova costume.

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