13 maggio 2018

"Robinson, La Repubblica"

Il senso di Neve per l'angoscia

Primo amore di Gwendoline Riley (Bompiani)

Gwendoline Riley è una scrittrice inglese nata a Londra nel ’79, ancora poco conosciuta da noi. Invece merita attenzione perché ha una voce tagliente, affilata sulla pietra. E il suo romanzo, Primo amore (traduzione di Tommaso Pincio, Bompiani), non ha niente da invidiare a una pièce di Yasmina Reza o di Sarah Kane: si gioca al massacro, un dialogo perfetto dietro l’altro, come nel miglior teatro contemporaneo. 

Vediamo Neve, la protagonista, una giovane scrittrice, massacrata dal marito, un uomo molto più grande di lei. Ma non di botte: Edwyn la massacra di parole. Neve è sempre passiva, non fa che scusarsi per tutto. E il lettore, inevitabilmente, si chiede perché continui a subire. Oltretutto è un uomo malato, nevrotico e ipocondriaco. Insomma, solo un peso. Eppure per lei è impensabile ribellarsi e lasciarlo. 

Piano piano conosciamo la sua storia, emerge lentamente il suo passato, in un racconto teso, quasi insostenibile. Forse è diventata così fragile per colpa del padre, un uomo violento e egocentrico, capace di offrire ai figli solo un amore malato. Scaricava su di loro tutte le sue frustrazioni e ogni uscita con lui diventava un’umiliazione. Per non parlare della sua ingovernabile rabbia, anche verso gli altri, che li faceva sempre vergognare. Tanto che lei e il fratello erano stati costretti a tagliare i rapporti. 

Il marito di Neve si diverte a sottolineare che lui è più vecchio, d’accordo, ma non è certo uguale a suo padre, non bisogna confondere i piani. Sarebbe un saggio consiglio, se non fosse l’ennesimo strumento di prevaricazione. E se il padre di Neve non fosse appena morto. Neanche le lacrime le sono concesse. Edwyn non la lascia in pace nemmeno in quel momento. Anzi. Raddoppia l’aggressività e, sprezzante, l’accusa di fare la bambina. In realtà, esige attenzioni solo per sé, non tollera che lei possa soffrire per qualcun altro. Il senso di morte che lo sovrasta gli impedisce di dare un peso alla morte degli altri. E Neve china la testa, si autoaccusa e si censura, sempre incapace di reagire.

Forse la sua insicurezza nasce da quel fidanzato musicista, che la faceva sentire in colpa per il suo bisogno di amore. Esagerato, secondo lui. Ogni tanto Neve pensa a quando era sola e poverissima – senza mariti, senza genitori, senza fidanzati – e non usciva mai di casa. Forse stava meglio. Eppure dei suoi carnefici non può fare a meno. 

Sua madre, per esempio. Ogni tanto la va a trovare e sono giorni da incubo. La madre è un personaggio inquietante, il migliore del romanzo. Sembra innocua ma, puntualmente, devasta la figlia. La sua leggerezza è una trappola. Abbiamo davanti una donna di sessant’anni che si vanta di aver lasciato anche il secondo marito, come se non fosse l’ennesimo fallimento accumulato. La sua ansia sociale è straziante come le feste a cui vorrebbe partecipare. Nessuno la considera ma lei insiste, non si arrende, finendo per rendere ancora più patetica la sua solitudine.   

Siamo in un’Inghilterra povera, fra Manchester, Liverpool e Londra, dove la miseria non è solo spirituale. Scappare da una città all’altra non serve a niente. Lo scenario non cambia mai: appartamenti squallidi, un po’ lerci, intasati di cose da accumulatori seriali. La grandeur a cui tutti aspirano è puntualmente smentita dal contesto. 

Tutti i personaggi di questo romanzo hanno lo stesso problema: un’idea troppo alta di sé che purtroppo non coincide con la realtà. E sfogano la loro frustrazione, con ferocia, sulla persona più vicina. Cioè su Neve, sempre su Neve. L’unica fin troppo consapevole di non essere migliore degli altri. E’ questa la sua forza e insieme la sua condanna. 

Splendido il finale sospeso: «Rimasi a osservarlo mentre se ne andava, a testa bassa, di fretta. Oxford Street era così affollata. Edwyn curvò le spalle, si irrigidì, schivò i passanti e, nel giro di poco, scomparve». Per sempre o è solo una tregua di qualche ora? Non lo sapremo mai. Del resto, Gwendoline Riley è un’ottima scrittrice proprio perché non concede al lettore una sola riga rassicurante. Nemmeno lo spazio bianco, dopo le ultime parole. A libro chiuso si resta in apnea, con un peso nel petto. 

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