6 marzo 2016

"Domenica - Il Sole 24 Ore"

Aspettando Vittorio…

L’incipit di Tutte le donne di, dl Caterina Bonvicini, precipita subito il lettore dentro il rumore di fondo e i tic mondani più fasulli delle nostre esistenze: «Ecco, tu non ci avevi mai pensato all’olio, che deve essere amaro o fruttato, per esempio. Magari equilibrato…». Un romanzo che appartiene alla «letteratura del benessere», specchio delle nevrosi di un ceto borghese medio-alto, che ruota intorno a editoria, giornali, design… Andrea De Carlo ne è stato un abilissimo interprete, più o meno simpatetico. Certamente ne fa parte Camilla Baresani, che recentemente ci ha mostrato però l’orrore che si nasconde nel fascino discreto della borghesia chic. Ed è singolare che questa «letteratura del benessere», in tempi di crisi, diventi quasi un anacronismo. Somiglia cioè alla stessa classe sociale che rappresenta, la quale non si accorge delle catastrofi che accadono intorno a lei, radicata nel suo status, nei suoi rocciosi privilegi, convinta ancora di essere il centro del mondo, avvolta da un sottile velo di irrealtà. Caterina Bonvicini ha il merito – e l’onestà – di raccontare piccoli egoismi e strategie di seduzione, senza volerci dare una sontuosa allegoria
storica però riuscendo ad afferrare il nodo cruciale della identità.
La sera dl Natale aspettano Vittorio (scrittore di medio successo), nell’ordine: l’amante Camilla, 26enne, dalla provincia di Novara; Giulia, la figlia minore, oggetto di lazzi pesanti a scuola, impegnata tutto il tempo a chattare; Paoletta, la figlia maggiore, un po’ sovrappeso, veste trasandata, fa la tassista pur essendosi laureata in filosofia; la madre, Lucrezia, 89 anni, che costruiva grattacieli; Cristina, la seconda moglie, sa tutto dell’amante e a sua volta ne ha uno, sposato con figli; Francesca, la sorella, vedova, insegna a Medicina, di lei è innamorata una giovane studentessa lesbica; Ada, la prima moglie, giudicata troppo egocentrica da Cristina. Ora, quella sera Vittorio non arriverà mai. E anzi scompare dalla circolazione: ne parlano i giornali, la polizia avvia le indagini. Il romanzo procede nel suo andamento polifonico, ed esplicitamente teatrale, attraversando Pasqua, Ferragosto, per poi arrivare all’anno successivo, a Sant’Ambrogio. Qui il lettore, nell’ultima sezione, fa la conoscenza dl Vittorio e apprende che si è innamorato di un «olandese pelato con le infradito», con il quale convive, ma ora lui è di nuovo a Milano, in ansia per Pieter (ammalatosi gravemente), e avviato risolutamente verso casa sua, via Circo 8. Davanti aI suo nome sul citofono («i nomi durano più di noi») ha però un momento di incertezza: «Ma è ancora il mio nome?… lo non posso suonarlo – non mi riconosco… potrebbe essere chiunque, questo Vittorio Fumagalli». Al lettore, cui pure abbiamo svelato troppo (ma d’altra parte non è un noir) non diremo se alla fine Io suona.
Del romanzo si ricordano certe istantanee dl Milano, dove le strade del centro sono così soffocanti, che perfino palazzi più belli, da boulevard parigino, «sembrano patire la mancanza d’aria». E poi la abilità artigianale nel costruire i personaggi, e nell’imitare alla perfezione le loro voci. Certo, ci appaiono anche come dei stucchevoli cliché. Ma il “realismo” di Bonvicini corrisponde appunto alla realtà divenuta cliché del nostro tempo, in cui siamo tutti sempre più impastati di stereotipi e immaginario pubblicitario-televisivo, e in cui le cose stesse sembrano confondersi con la loro rappresentazione. Vittorio è il Convitato di Pietra che involontariamente costringe tutte a rivelarsi. Lui intanto fronte al citofono non sa più chi è. Riecheggia qui un tema della grande Letteratura della Crisi. La questione dell’identità è squisitamente novecentesca: il cambio di nome di Mattia Pascal non risolve la sua estraneità alla vita, Zeno si paralizza quando capisce il laborioso meccanismo che ci fa spostare una gamba, il vivisettore Ulrich si disperdeva in un pulviscolo di esperienze. Per tutti la frammentazione del soggetto era un problema, qualcosa che sfumava nel tragico. Vittorio invece ragiona “alla giornata”. Pieter non gli chiede niente, non genera doveri di sorta né sensi dl colpa. Poi, quando si ammala, Vittorio ne è angosciato, tenta di aiutarlo. Eppure neanche ciò sembra dargli vera consistenza. Il velo di irrealtà cui accennavo separa anche lui da se stesso. Ci tiene a farci sapere quanto sia maturato, ma le sue parole, le ruminazioni sulla felicità e le descrizioni liricheggianti, hanno un suono falso. Quella sera della vigilia dl Natale non si presentò perché si sentiva intollerabilmente “controllato”, “responsabile per tutte”. Non vorremmo costringerlo ad accettare di nuovo giochi di ruolo e maschere della vita sociale, ma è davvero possibile immaginare una identità ( e anzi capacità) affettiva senza responsabilità e sensi di colpa?

Filippo La Porta

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