21 marzo 2014

"Avvenire"

Bonvicini: quando l’amore è pura, beata trascendenza.

Nella celeberrima Amai, in polemica con una letteratura dell’oscurità e con una poesia sostenuta da arcani geroglifici, Umberto Saba si dichiarava ancora incantato dalla rima «fiore/amore», giustamente ritenuta «la più antica difficile del mondo», capace com’era sempre stata, quella rima, d’incenerire la vocazione lirica di quasi tutti coloro che, senza essere semplicisti, cercavano però l’ardua semplicità della verità. Se guardo ai nostri anni – assai modesti: e non solo da un punto di vista letterario – non risultano di gran numero quegli scrittori e poeti della vita che hanno saputo far tornare i conti d’una letteratura del sentimento, conservandosi supremamente limpidi, ma continuando a essere moralmente complessi. Si tratta soprattutto di donne: e, tra queste, un posto importante credo lo occupi Caterina Bonvicini. L’ho pensato a proposito del notevole Il sorriso lento (2010) e mi trovo a ribadirlo ora con Correva l’anno del nostro amore.

Romanzi in cui pure si palesa una specie d’autobiografia dell’ombra, trasfigurando narrativamente, Bonvicini, la propria materia esistenziale. Che cosa c’è di nuovo, se c’è, in quest’ultimo romanzo, nel conto di tale letteratura del sentimento? Direi che Bonvicini tenta qui di misurare espressamente quel sentimento su un difficile, plumbeo e irresponsabile tempo storico, coincidente con le vicende dell’Italia tra il 1975 e il 2013: intenzione esibita sin dal titolo delle cinque parti del romanzo, tutte esplicitamente datate, E v’aggiunge, Bonvicini, quella che i marxisti d’antan, nella decifrazione dei processi storici, chiamerebbero coscienza di classe: i protagonisti di questa storia (che comincia a Bologna – la città in cui l’autrice è cresciuta – e si prolunga nella Roma delle borgate), Olivia (che ha la stessa età di Bonvicini) e Valerio (narratore in prima persona), appartengono a due opposte classi sociali, seppur condividendo la stessa villa, dove i genitori del secondo – giardiniere e cameriera – lavorano alla dipendenza di quelli della prima, un’agiata famiglia di costruttori. L’amore è pura e beata trascendenza: così come, da subito, avviene per i due bambini che si danno il primo bacio a cinque anni. Trascendenza rispetto alle vicende pubbliche che sanciscono la disfatta del Paese: non importa se nel segno del dolore e del piombo stragista e terrorista, o se in quello dell’etica del successo a tutti i costi e dell’arricchimento senza scrupoli. Trascendenza rispetto alla famiglia e alla propria classe sociale, persino rispetto alla propria vocazione e al proprio destino. L’amore che dura per sempre anche quando si perde: nella lontananza, nella dissipazione, nel tradimento di sé e degli altri. Epperò, nel circolo della sua trascendenza, anche l’amore cambia: mentre comincia ad assumere i colori, il colore, di ciò che lo circonda e lo nutre suo malgrado. Bonvicini è abile nel restituircene le screziature e i torbidi: a mostrarci come tutto possa mutare, pur rimanendo esattamente com’era.

Massimo Onofri

Indietro