8 marzo 2008

"Alias – Il Manifesto."

Caterina Bonvicini, visione clinica della depressione.

Potentemente visivo fin dalla copertina con gli austeri palazzi umbertini di Torino trasformati in pareti azzurre fra cui nuotano pescecani, l’ultimo libro di Caterina Bonvicini, richiama il titolo, altrettanto provocatorio e immaginifico, de L’eleganza del Riccio di Riccio di Muriel Barbery.

Sono dotati di equilibrio gli squali? Ovviamente no, così come al riccio non si associa l’eleganza. La scelta di un ossimoro così forte proprio perchè unisce una qualità eminentemente psicologica e culturale – l’equilibrio – a un animale al quale di solito attribuiamo tutt’altre connotazioni, dà immediatamente la misura simbolica e metaforica del romanzo che intreccia la cronaca sentimentale di tre personaggi: una giovane donna fotografa che passa attraverso amori infelici ed è l’io narrante, un padre biologo marino dedito agli squali che comunica perlopiù attraverso video filmati, una madre di cui la protagonista ritrova numerose lettere scritte prima del suicidio che l’ha lasciata orfana a sei anni. Tre solitudini che cercano una forma per dirsi e schiudono l’esplorazione di quella che un tempo si chiamava ‘malinconia’ ed è modernamente e tecnicamente nota come depressione. Una condizione che secoli di letteratura hanno affiancato all’universo della creazione e che si traduce qui in una riflessione sul potere e sui limiti dell’arte. La protagonista, che con notevole ribalderia si richiama niente poco di meno che a Leon Battisti Alberti e cerca ‘luce, prospettiva e un rigore implacabile’, nella primissima pagina del romanzo è presentata attraverso la cartella clinica del ricovero ospedaliero a seguito di una smodata assunzione di benzodiazepine: «riferisce di vivere sola e sostiene di essere un’artista». Quale più fine ironia si potrebbe insinuare sulla vocazione e sul destino dei personaggio di quella creata dal linguaggio asettico e crudelmente classificatorio di un referto psichiatrico? Insoddisfatta delle proprie fotografie come dei propri amori, la giovane donna si misura con frustrazione costante rispetto alla felicità e alla bellezza. La paura di fallire nei rapporti così come nell’arte rimbalza dalle persone alle cose: «Ogni tanto l’attenzione mi scappava verso un lampione o un angolo affrescato, e mi mancava il fiato. Quando a rompere la regolarità erano colonne antropomorfe o improvvise follie di stucchi, allora sentivo il bisogno di abbassare per qualche secondo le palpebre, come per darmi una seconda possibilità e non farmi trovare impreparata alla visione». Solo dopo un corpo a corpo con il demone della madre morta, artista e poetessa mancata, lo squalo che popola gli incubi della protagonista si allontana, lasciandola libera di confrontarsi con la misura e l’eleganza di una Torino «pazzamente bella».

Il binomio genio-follia caro alle biografie d’artisti e al romanticismo otto-novecentesco subisce qui una rivisitazione post-freudiana, lucida e disillusa: il male oscuro non si sublima nell’arte, al contrario è la vita a dover cercare l’equilibrio che consente di stabilire l’azzurro esatto della visione.

Alessandra Sarchi

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