1 luglio 2018

"La Lettura, Il Corriere della Sera"

Il diamante è rosso. Eccolo, non toccarlo

La struttura da ottaedro del diamante, che Caterina Bonvicini ha scelto per Fancy Red — il diamante rosso purissimo che la protagonista Ludò porta montato su un piercing — si rispecchia nella disposizione della materia del romanzo in 8 capitoli di 3 paragrafi ciascuno, distribuiti in 3 parti. Nella prima delle quali ci si muove — grazie al flashback — tra Europa e America tra il dicembre 2014 e il 23 maggio 2017; salvo nelle due seguenti optare per una sequenza più lineare e serrata (Milano, 24-28 maggio 2017), per chiudere con l’ultimo capitolo nel dicembre 2017 tra Milano e la Sarajevo comparsa in alcuni dei paragrafi precedenti sotto forma di lettere mai spedite che il protagonista Filippo ritrova nei computer della moglie Ludò, nelle quali la donna rievoca momenti drammatici di una infanzia impegnata a scampare ai cecchini cetnici.

Per dire di come la Bonvicini affianchi alla consueta composita struttura narrativa dei suoi romanzi la sostanziale linearità di Correva l’anno del nostro amore, dal quale peraltro (mi è stato fatto cortesemente notare) vengono due spunti narrativi — la scena di gommoni che sfrecciando sulle onde a tutta velocità potevano portare «una persona a cadere in acqua», o il richiamo a un rapporto non da «matrimonio piccolo-borghese» aperto a una libertà di rapporti — che si fanno basilari in Fancy Red, strutturandosi attorno a essi (soprattutto al primo) il risvolto thriller del romanzo, che in tal modo inserisce l’elemento di suspense in una struttura che ha scelto di essere da «noir psicologico». Che è il dato subito proposto nelle prime pagine, che vedono Filippo, apprezzato gemmologo, risvegliarsi dopo una notte di baldoria insieme a una ragazza di cui ignora il nome e che decide di chiamare Isabel, con accanto il corpo della moglie. Una notte di cui nulla ricorda, e che nel rilanciarsi colpe e ipotesi su chi possa averla uccisa, portano i due alla decisione di far pensare all’annegamento di Ludò, ancorando il cadavere in mare: scelta quasi a contrappasso di quanto tragicamente accaduto anni prima e che ha dato motivo a una tacita, lunga storia di vendetta.

Né solo questo; perché poi la vicenda ruota attorno al topos narrativo dell’oggetto rubato che scompare e riappare: in questo caso il diamante; che col suo misterioso riproporsi porta in scena anche Ia figura del «padre di Ludò» (come sempre viene identificato, in un romanzo in cui anche iI «nominare» rientra nel gioco delle ambivalenze), affezionato a Filippo e che si impunta nel voler ritrovare quella figlia bella e ribelle, che porta in sé anche qualche tratto dì Olivia, la protagonista incostante e perennemente insoddisfatta di Correva l’anno del nostro amore, a sua volta erede d’un imprenditore miliardario che si accompagna a un ben più ordinario Valerio.

Noir, dunque. E andamento da thriller che viene affacciandosi gradualmente, come già accaduto con la scomparsa del protagonista Vittorio in Tutte le donne di. Dentro comunque quel tema spesso centrale della Bonvicini dei «non-rapporti» di coppia (Filippo-Ludò; l’ex fidanzato Flavio e la moglie Rebecca) e familiari (Filippo e suo padre; i fratellastri di Ludò e il padre, il solo che si salvi con la bella figura della compagna Melania), che si sviluppano in romanzi di solitudine. E dove l’accentuazione noir consiste soprattutto nell’anticipare quanto solitamente l’autrice fa entrare in campo con gradualità: quella morte che in precedenti opere spesso giungeva alla fine, accompagnandosi alla presenza di malattie (tumore), e che qui si fa leitmotiv di tutto il romanzo, presentandosi sin dalla prima pagina, ribadita dalla forte prevalenza di indicatori negativi (non, niente, mai, senza, fuori, neanche, invece). E la presenza della morte non solo si incarna nel destino finale di Ludò, ma attraverso lei in quello di Sarajevo, narrato dall’interno, per piccoli, quotidiani dettagli. Un personaggio comunque presentissimo, Ludò, proprio per la necessità da parte di Filippo di capirla.
Quanto invece alla malattia, ha qui caratteristiche psicologiche (perverse e violente in Flavio e Rebecca): da malattia dello spirito (Ludò) e dell’anima (Filippo) d’una coppia che vive una situazione di crisi per via dell’incapacità di fidarsi del proprio amore. Con un Filippo la cui confusione interiore è di continuo esibita dal suo io narrante.

E, in tutto questo, il diamante:metafora del doppio che porta in sè: di ricchezze e miseria; lucidità e opacità; durezza e fragilit. E dove quel “le gemme sono fatte per essere guardate, non possedute”, ossia della brama di possesso come perdizione, esemplato nella storia (la sola d’una certa ampiezza) del diamante maledetto Koh-i-Noor, introduce alle pagine conclusive, col racconto dei differenti destini dei personaggi del romanzo. Per un racconto di raffinato equilibrio, e d’una scrittura che rispetto al passato si fa più contenuta nei registri narrativi ed espressivi, ulteriormente raffinandosi nel senso della parola. E poggiante su un ritmo dallo scorrimento sempre più serrato.

Ermanno Paccagnini

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