23 novembre 2010

"Il Foglio"

Il sorriso lento.

Mi è capitato di leggere Il sorriso lento (Garzanti), il nuovo romanzo di Caterina Bonvicini (fiorentina del ’74 cresciuta a Bologna), mentre mi trovavo in viaggio in Cina, su un aereo da Pechino a Canton. Quasi tre ore di volo in cui ho cercato disperatamente di nascondere le lacrime agli altri passeggeri, tutti cinesi, che mi guardavano allibiti (non sono gente emotiva). Ma non è possibile leggere senza piangere questo libro dove si racconta la morte di una ragazza, Lisa, che ha appena avuto un bambino. Non pensate, però, a una storia patetica. E’ una storia coraggiosa, che diverte e sgomenta, che suscita ribellione e disarma. Ed è soprattutto il canto intonatissimo della giovinezza, con la sua grazia e irriducibilità, la sua boria, inadeguatezza, dolcezza, il suo tremendo disorientamento.

Ed è la storia di una grande amicizia fra giovani donne spavalde e confuse, Lisa e Clara, colei che racconta quando tutto è avvenuto, quando la morte è passata a ferire la giovinezza, a sporcarla e sprecarla. Ah, ma non è solo questo! E’ anche la storia di un certo Ben, importante musicista, che ama le donne molto più giovani di lui. La sua vicenda s’intreccia curiosamente a quella di Clara, ognuno col suo lutto e così diversi.

Ma qui il lettore ha uno shock. Perché la voce di Ben (ora è lui che racconta, nella seconda parte del romanzo) è esattamente la voce di uno dei più grandi narratori viventi, Philip Roth. Sì, Caterina Bonvicini si è permessa il lusso di scrivere un romanzo a quattro mani con Roth, facendone un calco di intonazione, vicende, mentalità, così maschile, così spietato e, alla fine, così funzionale a quel che lei vuole dire. Quel che lei vuole dire è il tradimento della giovinezza, questo è il vero centro di una narrazione capace di molti rivoli, di molte false sembianze. La giovinezza tradita dalla morte e dall’amore sbagliato, quello strumentale di un vecchio affascinante e manipolatore e talmente egoista da non avere rispetto per il talento della sua giovane compagna (anzi ne è terrorizzato e geloso) né per la sua morte.

E’ molto duro questo libro e pieno di accensioni. Non ricordo di aver letto descrizioni più vive su un’amicizia che non riguarda soltanto due persone, ma tutto un gruppo, e una città, in questo caso Bologna. Questo gruppo mai stato spensierato (ma chi l’ha detto che la giovinezza lo è?) e che si ritrova a gestire la tragedia, cercando di non sgretolarsi, di sostenersi e sostenere la principale interessata, la pugnace Lisa, dal «sorriso lento» che si apre un po’ per volta in una «risatona» possente.

Anche il cammino letterario di Caterina Bonvicini è stato «lento»: nessun investimento faraonico sul presunto nuovo autore eccezionale, ma un crescendo tranquillo a partire dall’esordio einaudiano nel 2002 (Penelope per gioco) per arrivare oggi a questo romanzo complesso e appassionato, che sta avendo un convinto consenso di critica. In mezzo, fra racconti per grandi e bambini, un altro bel romanzo, il precedente L’equilibrio degli squali (Garzanti), che ha avuto un notevole successo in Francia. Anche lì il tema era tosto: la depressione che porta a corteggiare il suicidio, a inanellare relazioni sbagliate governate da un irrisolto nodo edipico. Non c’è, per fortuna, nei racconti di Bonvicini il compiacimento dell’autofiction, ma tuttavia riconosciamo la verità della vita, quella Fame di realtà per citare il titolo di David Shields (pubblicato da Fazi), un interessante, curioso «saggio» fatto di citazioni, una specie di manifesto di dove sta andando e di cosa deve essere fatta la letteratura oggi. Di verità, appunto, di autenticità, di vero dolore e vera passione, di un personale non esposto, scandaloso e sconcio, ma elaborato e condiviso in forme narrative non prevedibili, costruite con buona tecnica, perché solo così la «menzogna» letteraria diventa più vera del vero.

Sandra Petrignani

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