15 febbraio 2014

"Il Fatto Quotidiano"

La storia di tutti in preziosi dettagli.

Quando Gianni Morganti mette in testa alla moglie un bel paio di corna, la signora Manon pretende in cambio un quadro. A lei piace Balthus. Lui preferisce Chagall. E meno male che non vale il contrario perché se a Gianni piacessero le adolescenti balthusiane si rischierebbero guai peggiori. Guai che toccano al marito di Olivia, la nipote di Manon e Gianni, un torinese, sempre di buona famiglia, anzi ancora più altolocato, che ha il debole per i ragazzini e ne violenta uno. Grazie ai soldi l’incidente finisce in polvere sotto al tappeto. Olivia si sente molto a disagio ma subisce la situazione, manda giù l’amara goccia che farà tracimare il vaso di un matrimonio che non è mai stato solido.

Caterina Bonvicini sa raccontare la borghesia italiana ed è qualcosa che non accade spesso. Si capisce dai dettagli, dove non si annida solo il diavolo. Come nel racconto della reazione di Manon alla notizia della morte di Roberto Calvi, il “banchiere di Dio”, trovato impiccato sotto al ponte dei Frati Neri a Londra. Manon dice che uno tornato a piedi in Italia dalla campagna di Russia non si suicida. Lei lo conosceva. Attraverso questa e altre schegge di vissuto personale la grande storia si infiltra nel romanzo come una spina sotto l’unghia. Dodici anni dopo – correva l’anno 1994 – il discorso della discesa in campo di Berlusconi fa da sottofondo televisivo al drammatico dialogo tra Olivia e il fidanzato Valerio. Olivia andrà a Parigi a studiare o resterà in Italia? Il legame ha un futuro o si infrangerà al primo snodo esistenziale? Per un attimo tra i due cade il silenzio e nel silenzio la voce di Berlusconi: “l’Italia, che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle”.

 

LA STORIA ITALIANA fa da malinconico contrappunto al perdersi e ritrovarsi di Olivia e Valerio, la ragazza della buona borghesia bolognese e il figlio della serva e del giardiniere dei Morganti che farà carriera. Tra le righe risuona il sibilo sinistro di una parola che dagli Anni 80 in giù ha pesato parecchio. La parola sfiga. Non è la sfiga che ci vede benissimo, al contrario della fortuna cieca, secondo la definizione di Freak Antoni. Ma il discrimine opprimente tra chi perde e chi vince, chi sta sopra e chi sta sotto, chi è ricco e chi è povero. La mamma di Valerio condiziona il figlio facendo della fuga dalla sfiga una religione in negativo, separandosi e trasferendosi a Roma. Nel gran casino del mondo, difficile dire che peso abbiano le scelte, non esiste una controstoria né personale né nazionale: resta l’enigma del destino che ci sbatte qua e là, a volte sfruttando l’inerzia della mediocrità del quieto vivere. A tutto si abitua quella carogna che è l’uomo, diceva Dostoevskij. Così le vicende di Valerio e Olivia scorrono parallele e si riannodano per allontanarsi di nuovo. L’invisibile legge narrativa che regola questa traiettoria passionale, ineluttabile quanto indecifrabile, è l’aspetto più bello del romanzo. A parte i dettagli.

Antonio Armano

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