16 febbraio 2014

"Domenica – Il Sole 24 Ore"

Le persone cambiano, l’amore no.

La protagonista femminile di Correva l’anno del nostro amore, Olivia, ha la stessa età della sua autrice, Caterina Bonvicini, entrambe sono nate alla metà degli anni Settanta, il che significa che hanno cominciato a rendersi conto dei discorsi degli adulti mentre nelle loro parole c’erano ancora gli echi della strage dell’Italicus e stavano per circolare le paure legate a quella della stazione dl Bologna del 2 agosto 1980. E a Bologna inizia questo romanzo generazionale al nero, dove una passione d’amore segue il filo della grande mutazione italiana dell’ultimo quarantennio, una cornice di spine che sono altrettante emergenze delle cronache del periodo: lo stragismo nero, il terrorismo rosso, la stagione dei sequestri di persona, le morti per droga, poi Tangentopoli, Mani pulite, la fine di Calvi, in ultimo i continui scandali legati ai continui casi di corruzione.

Olivia e Valerio, suo instancabile innamorato e voce narrante della storia, si conoscono da bambini, divisi da un piano di scale, quello della grande villa della famiglia di lei, e da una differenza di classe che sembra l’unico ostacolo alla loro empatia: lui è figlio del giardiniere e della cameriera dei genitori della coetanea, ricchi costruttori; o almeno lo è il nonno, schietto, fattivo e vitale che appartiene alla generazione che ricostruisce l’Italia dopo le rovine della guerra. Ma mentre gli anni passano non solo cambia il Paese in un accavallarsi di eventi drammatici e infausti: anche le differenze sociali prendono un nuovo, non meno brutale, aspetto. È questa metamorfosi privata che, attraverso il filtro di un amour fou, racconta il romanzo della scrittrice bolognese (come Olivia) con una lucida ma implacabile, inconsolabile amarezza. Perché se i disastri pubblici scandiscono il tempo della storia come una sorta di fosca colonna sonora, Correva l’anno del nostro amore indaga ciò che è la materia prima della narrativa: i sentimenti e i comportamenti degli esseri umani in relazione al tempo in cui vivono, il complicato e per nulla prevedibile cortocircuito che si instaura tra la storia personale e l’altra storia, quella che si scrive con lettere maiuscole invalicabili come montagne.

Nel caso dei due protagonisti del romanzo, il povero e la ricca, nel cortocircuito dell’Italia degli ultimi quarant’anni anche la differenza di classe cambia aspetto. Non più i servi e i padroni, i proletari e i capitalisti. Il mondo si divide ora tra vincenti e perdenti e quest’ultima categoria può essere declinata in molti modi. Racconta Valerio: «Uno come me, che invece di andare a una festa preferiva stare a casa a leggersi un libro, era uno “sfigato”».

“Sfigati” sono tutti quelli che non hanno potere-denaro-successo, e non importa se non li hanno perché preferiscono qualcos’altro. Valerio però non resiste al ricatto dei tempi: voleva fare II magistrato, finisce in un giro romano di “palazzinari” che rischiano continuamente il carcere o, grazie alle mazzette, gli arresti domiciliari. E non resiste Olivia; sensibile e generosa da bambina, da adulta cambia capricciosamente mestiere, città, mariti, e la sua unica attività sarà scialacquare il patrimonio che le hanno lasciato. Così anche per il loro amore non c’è scampo, distrutto dalla corruzione dei cuori. La scrittrice non vuole ignorare nessuna figura e nessuna desolata epifania dell’incubo italiano che è la scena tragica del suo romanzo. L’unico personaggio positivo della storia è la nonna della protagonista, bella, altera e colta, che racconta ai bambini i drammi di Shakespeare come fossero favole, e che soprattutto crede nelle virtù della verità e della sincerità. Ciò che lascia sarà disperso, perché anche questo è un tema del libro: l’eredità perduta, sia essa di imprese e denaro e lavoro ma anche di cultura e di un allegro, innocente amore per la vita.

Elisabetta Rasy

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