17 gennaio 2014

"La Repubblica"

L’eredità di Pasolini.

Il Narratore Italiano sente fortemente – e non da oggi – due imperativi più o meno categorici: attraversare o testimoniare l’attualità e la storia recente e rendere omaggio in modi diversi allo Scrittore più venerato e discusso degli ultimi decenni. L’attualità contempla, per esempio, la missione italiana in Afghanistan (Mazzucco e Giordano), l’emergere quasi a fatto del giorno dei legami omosessuali (ancora Mazzucco e Mazzantini), la ricchezza accumulata in modo abnorme dagli speculatori finanziari (Siti), il confronto tra la crescita di un ragazzo e gli eventi che caratterizzano quegli anni, dalla morte di Moro alla lezione di Berlinguer, all’avvento di Berlusconi (il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo).

L’incontro con Pasolini, per venire al secondo punto, è addirittura l’oggetto di un libro intero nel caso di Emanuele Trevi (Qualcosa di scritto), ma la mitologia della borgata, per esempio, è ben presente nei già citato Siti (Resistere non serve a niente) e spunta ora anche nel nuovo ro-manzo di Caterina Bonvicini: Correva l’anno del nostro amore che ha una doppia cornice ambientale: la Bologna di una ricca famiglia di costruttori (ma anche della strage alla stazione) e la Roma della periferia coi “pischelli” che giocano in cortile prima di cominciare quasi tutti a rubare come i loro padri.

C’è anche un problema di competenza linguistica, lo stesso che si pose Pier Paolo, friulano, quando affrontò il romanesco da borgata. Lì la vita è vera o almeno non appare ancora inquinata dall’ideologia borghese e persino la galera è un “valore” o alla peggio un incidente da mettere In conto. Se poi si perde la vita, pazienza, sono cose che capitano. La memoria di Pasolini e dei suoi eroi incrocia la banda della Magliana.

C’è da aggiungere che l’école pasolinienne non si è mai interrotta, ma è passata di generazione in generazione. Quando Pier Paolo stava per morire era pronto il primo romanzo di Vincenzo Cerami (Un borghese piccolo piccolo) che Pasolini aveva visto e citato in un suo articolo. Ma Cerami, che di Pasolini era stato allievo e poi collaboratore, avrebbe messo a frutto quella lezione in molte opere, sia pure in modo tutto suo. E sempre nei dintorni della scomparsa di Pasolini c’è da registrare il bel libro di Enzo Siciliano, Campo de’ fiori. Ci sarebbe stata poi la Morante di Aracoeli e ancora l’esperienza purtroppo breve di Sandro Onofri… Un retablo, a voler ben guardare, complesso che lavora sull’eredità pasoliniana in modi diversi, ‘talvolta senza neppure nominarlo e che trova nelle discussioni su Petrolio, il romanzo postumo incompiuto, e sulla vera storia della sua morte un alimento costante, un “plot” irrisolto.

Che quegli anni fossero da raccontare anche da chi non lì aveva vissuti, lo conferma Addio a Roma di Sandra Petrignani (2012), che mescola realtà e finzione. D’altra parte si ha a che fare un po’ all’ingrosso con il mito di Pasolini e non solo con lo scrittore o poeta o cineasta Pasolini e il mito diventa una funzione narrativa come in tanti romanzi di epoche diverse (non sembri un paragone irriverente) con la figura del Messia e la sua predicazione. Il caso Pasolini appare come un caso unico negli annali recenti delle nostre lettere senza scomodare gli antichi fasti del petrarchismo che restano lontani e diversi: molti scrittori sono stati imitati, ma a nessuno è toccata in sorte una presenza così larga e così condivisa. Parlare di letteratura corale forse è troppo, ma c’è un uso evidente e capillare della “pedagogia” pasoliniana che del resto ritroviamo nelle cronache del quotidiano: basta il gesto di un poliziotto e si corre col pensiero a Valle Giulia e a quell’ormai remoto rovesciamento di fronti.

Bonvicini racconta, con la scioltezza e la verve già ammirate in L’equilibrio degli squali e in Il sorriso lento, la storia di una bambina, Olivia, figlia di una ricca famiglia di costruttori bolognesi, i Morganti, e di Valerio suo coetaneo, figlio della cameriera e del giardiniere, ma cresciuto in villa praticamente alla pari. Manon, la nonna di Olivia, intrattiene i due piccoli, raccontando un po’ di tutto, da Shakespeare a Hitchcock, e non fermandosi quando l’argomento è, per due bambini, poco adatto. Arriva, per esempio, la notizia della morte di Calvi a Londra e Manon narra di averlo conosciuto e di aver sentito da lui il racconto del suo ritorno rocambolesco dalla Russia, tra i reduci di un esercito distrutto. Uno così non si suicida conclude Manon e infatti al suicidio non crede nessuno.

Olivia e Valerio crescono insieme e “fanno coppia” anche se di anni ne hanno pochissimi. Si invaghiscono l’uno dell’altra, come sanno fare i bambini e quell’amore durerà, nonostante tutto. La vita in borgata si inserisce ad un certe punto perché la madre di Valerio porterà il figlio con sé a Roma: è ambiziosa e il marito giardiniere senza progetti non le piace più. Valeria, cresciuto in borgata, tra er Faccia e er Tazzina, col soprannome di er Principe, diventerà un abile uomo d’affari al servizio di un’altra famiglia di costruttori, i Bernasconi, gente senza scrupoli e ai limiti dell’illegalità. Valerio ha frequentato un buon liceo e li ha stretto amicizia con Costantino Bernasconi. Il romanzo è dunque una partita doppia, un confronto continuo tra due mondi diversi.

La Bonvicini vuole testimoniare la complessa realtà degli ultimi decenni attraverso la storia di personaggi eli caratura in genere assai modesta che solo il denaro riesce a mettere in moto. E in effetti sono proprio loro i protagonisti senza nessuna possibilità di redenzione.

Il romanzo è vivacissimo e pieno di movimenti paralleli, di storie, scontri e incontri. Olivia, per le sue scelte spessa sbagliate, a volte ricorda la cattiva ragazza di Vargas Liosa. Se ne cava una morale? Direi caso mai che si certifica ancora una volta un senso di sconfitta: questa è la cultura che ha dominato l’Italia negli ultimi decenni e il danno è stato enorme, forse irrimediabile. Ci si può chiedere: serve raccontarlo? Serve denunciarlo? Certo è una testimonianza, come si dice, “a carico” e in questo senso doverosa. In ogni caso, come si è visto, sono in molti a senti-re questi anni come una ferita aperta,

Valerlo durante una visita alla villa di Olivia in cui ogni tanto ritorna, ruba da un tavolo un album dì vecchie fotografie. Dentro c’è la storia della sua infanzia e di quella di Olivia, forse l’unica cosa che, almeno nella memoria, si sarebbe salvata. Era meglio non crescere, sembra dirci Valerio, ma quella di Peter Pan è una favola che non si ripete.

Paolo Mauri

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