1 luglio 2018

"Domenica, Il Sole 24Ore"

L’odore dolce della miseria

Basta entrare in una libreria, dirigersi verso il settore narrativa e guardarsi intorno: si noteranno due fenomeni opposti, probabilmente complementari. Da un lato una massiccia presenza di storie dichiaratamente di genere: il rosa, il fantasy, l’horror, ma soprattutto il giallo e il noir affollano gli scaffali, pubblicati a ritmi sostenuti non solo dall’editoria specializzata, ma anche da grandi case generaliste. Altrettanto evidente è però la presenza, in scaffali contigui, di scritture che attraversano i generi, integrando gli schemi di intrattenimento in chiave pedagogica: basti pensare al successo dei romanzi non fiction sulle mafie o sulle guerre, che strizzano l’occhio ai piaceri del crinle mentre ostentano il contegno della denuncia civile. Il disseminarsi di un polline di genere sulla superficie di molta narrativa ‘seria’ si accompagna sorprendentemente al riciclo delle scritture di consumo, meno blasonate; rifiuto dei generi e ritorno dei generi assecondano entrambi quel processo di lubrificazione spettacolare e morale che appaga li nostro bisogno di storie insieme forti e edificanti. Fanty red, di Caterina Bonvicini, fornisce un esempio concreto dello schema, con il suo imboccare con decisione la strada del noir psicologico. Non solo per la prima pagina – subito un cadavere e un mistero da risolvere – né soltanto per il suo svilupparsi intorno alla ricerca di un assassino, che a un certo punto diventa seriale; ma anche per tanti suoi aspetti formali, ad esempio l’enfasi sulle azioni dei personaggi («La signora ha cominciato a vomitare sul pavimento di marmo»), o l’estrotlessione della psicologia («Il liquore mi colava ancora sul viso, come una lacrima»). Il ritmo narrativo, scandito da colpi di scena accuratamente dosati, guarda ai tempi e ai modi del cinema (per esempio Alfred Hitchcock) e del romanzo noir (per esempio Patrcia Highsmith), Modelli che si fanno sentire anche sul piano della lingua, che suona a tratti ‘tradotta’ (“Se non mi avessero fatto quella proposta, adesso non mi troverei nella merda fino al collo”).

E tuttavia, Fancy red non è solo un libro di genere: lo chiarisce, tra l’altro, il finale, insubordinato ai codici del noir, che rinuncia alla consueta catarsi per portarci nel cuore morale del libro – la crisi dell’Europa multiculturale, il suo disfarsi in un selva di ineguaglianze e esclusioni. Eccoci allora nel bel mezzo del fenomeno cui si parlava all’inizio: sparsi ingredienti di genere servono a Bonvicini per coinvolgere, divertire e orientare narrativatnente il lettore; mentre i temi profondi, prelevati dal vivo del dibattito contemporaneo, servono a metterlo in contatto con la cronaca, suscitare reazioni, fare opinione. Ovvero a orientarlo anche in senso culturale.

Ma quali sono i temi profondi di Fancy red? Il titolo allude a un raro tipo di diamante rosso; il telaio del romanzo – otto capitoli da tre paragrafi ciascuno – rinvia a un  ottaedro, che rimanda a sua volta alla struttura cristallina del diamante, emblema che ritorna in molti luoghi del testo, metafore comprese («mi guardava coni suoi occhi adamantini, e mi lasciava li, a marcire nel dubbio»; « [Flavio] mi faceva pensare a un diamante nero»). La gemma rossa al centro dell’intrigo viene contesa, più o meno simbolicamente, da personaggi socialmente opposti: uomini ricchi che vivono nel cuore dell’occidente, donne povere che vengono dalla periferia del pianeta. I diamanti non servono a raccontare il lusso, semmai il contrasto, lacerante e occidentale, tra ricchezza e povertà. L’odore dolce della miseria è infatti il titolo della prima parte del romanzo, con un ossimoro che tradisce lo sforzo di tenere insieme i contrari. Una formazione di compromesso innerva tutti i livelli del libro: compromesso tra divertimento e denuncia, tra denaro e miseria, tra possesso e privazione. Del resto il protagonista maschile, gemmologo di un’importante casa d’aste, ci mette sulla strada giusta fin dalle prime pagine: «Mi piace guardarli, i diamanti, non possederli. Li amo perché sono altro da me, loro stanno li e io sto qui, apparteniamo a mondi differenti». ll fascino dell’altrove, la curiosità per i «mondi differenti»: eccolo, il vero tema profondo del libroro, costruito su una direttrice turistica e global che spinge i protagonisti, e il lettore stesso, a visitare, con la scusa della trama, tanti luoghi diversi e esotici, catalizzatori di vicende suggestive e violente. Anche se il baricentro della storia è nei Navigli, il motore narrativo ci porta nella Lisbona del fado, a Cuba, nelle isole greche, nelle Fiandre, nella Sarajevo sotto assedio degli annii Novanta e in quella contemporanea dei traffici internazionali, nell’Argentina portena del tango e in quella patagonica di Capo Horn. Non sono viaggi d’evasione quelli di Fancy red; semmai vacanze intelligenti, spruzzate di trasgressione e talvolta di angoscia («struggente» è nel libro una parola chiave). Bonvicini ci propone una specie di turismo scritto, avventuroso e alternativo, che si indigna davanti ai cecchini della guerra in Bosnia come ai bambini-soldato della Sierra Leone; un turismo impegnato, che si commuove per gli emarginati che annegano nel canale di Sicilia o si prostituiscono sulle spiagge dei Caraibi. «I ricchi hanno una caratteristica in comune: non stanno mai fermi»: lo nota il personaggio più trasformista del romanzo, coscienza critica e angelo sterminatore. Anche Fancy red è in costante movimento: il piacere, in libri come questo, non consiste nello scoprire l’assassino, ma nel viaggiare il più a lungo e veloce possibile, dimenticando la nostra noia quotidiana per concentrarci sulle guerre degli altri.

Gianluigi Simonetti

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