14 gennaio 2014

"L’Unità"

Olivia, Valerio e la nostra storia.

«QUINDI, PRIMA Di PROMETTERE CHE DA GRANDE AVREBBE VOTATO BERLINGUER, AVEVA CERCATO DI INFORMMARSI MEGLIO; “MA SE IO HO UN GELATO, DEVO FARLO LECCARE A TUTTI?” La sua personale paura del comunismo, incarnata in una serie di lingue umide legittimate a sbavare sul cono al pistacchio, aveva divertito gli adulti, servi e padroni, compagni e democristiani. Ridevano tutti, a larghe intese». La bambina del gelato al pistacchio si chiama Olivia, il suo amico del cuore invece si chiama Valerio. Olivia è figlia di un ricco costruttore bolognese, Valerio è il figlio del giardiniere e della cameriera di casa Morganti.

Correva l’anno del nostro amore di Caterina Bonvicini, racconta le vicende amorose di Olivia e Valerio, dal 1975 al 2013, da quando, bambini, il tempo non si misura, perché è sempre tutto, a quando da adulti, dopo una vita di separazioni, incroci, titubanze, desideri e possibilità alle spalle o intorno, il tempo, improvvisamente collassa al quadrante di un orologio, scandito dal lavoro, da una sigaretta, da esigenze familiari, dalle candeline sulla torta per l’anniversario del matrimonio. Il matrimonio sbagliato ovviamente, altrimenti il tempo tornerebbe a essere intero. «Tutta l’aria che le usciva dalla bocca toglieva ossigeno a me: mi rendevo conto che Olivia era innamorata».

 

IL DESIDERIO DELL’ALTRO

Olivia e Valerio dunque. Che a un certo punto si separano, perché tutti i co-protagonisti, desiderano altro da quello che hanno, desiderano altrove dal posto in cui sono. La prima separazione è dovuta alla madre di Valerio, che non vuole più stare a servizio dalla madre di Olivia e dalle colline bolognesi si trasferisce a Roma, in borgata. La scusa è aver conosciuto un uomo che le consentirà una vita da signora, la verità è che la borghesia, specie se agiata, è un morbo che infetta tutti. Tant’è che la voce narrante è quella di Valerio che deve appropriarsi della storia e non quella di Olivia che c’è nata dentro. «La mania dei ricchi per le iniziali secondo me ha qualcosa di patologico, è una malattia di casta, come i tatuaggi in borgata. Tutti sembrano sentire l’esigenza di imprimersi un marchio addosso, i poveri lo fanno sulla loro pelle e i ricchi su tutto quello che la copre e la circonda». Se Manon e suo marito, i nonni di Olivia, sono personaggi poetici, disordinati ma poderosi e suadenti, perché raccontano e incarnano storie, perché si sono inventati una vita, perché il patto che li lega è la bellezza e non altro, e se i ragazzini di borgata che accolgono con sospetto Valerio, Er principe, hanno caratteristiche che (finalmente!) non rimandano immediatamente a Ragazzi di vita, se in una narrazione che dura quasi quarant’anni Bonvicini non dimentica nessuno e niente – neppure la Beretta nel cruscotto di una ritmo blindata – la lingua che sceglie per raccontare è una lingua pastosa e duttile, di das, si indurisce paratattica nelle riflessioni e nelle argomentazioni, si volge e riavvolge ipotattica nei sentimenti sempre slabbrati che (si) inseguono (in) Valerio e Olivia, mima il parlato, mima l’indolenza sfottò del dialetto romano, è irriverente. «Ero un po’ invidioso perché lei era riuscita a fare molte più cose di me, tipo sposarsi e commettere un reato». Bonvicini prende di petto tutti i cliché senza timori, autenticamente impegnata a costruire un melodramma nel quale non fenomeni atmosferici ma fatti storici, spesso sanguinosi, riflettano sentimenti ed emozioni dei protagonisti. Manon, che racconta Amleto così come «la favola di Calvi», è una chiave interpretativa. Si narra per posticipare il giudizio a quando ne sapremo abbastanza per dire sì o no. La letteratura è una forma di introspezione e talvolta, una terapia di gruppo.

Sono stati pubblicati, in pochi mesi, tre libri – un romanzo (Caterina Bonvicini), una cronaca ibridata da inserti autobiografici (Rosetta Loy, Gli anni tra cane e lupo, chiarelettere) e un romanzo mascherato da auto-fiction o viceversa (Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi) – nei quali gli autori hanno cercato di riappropriarsi attraverso una sistemazione narrativa e ciascuno con la sua lingua, della storia italiana recente, dalle stragi a Berlusconi, dalla televisione a Mani Pulite, di dare dunque cittadinanza, anche se in libertà vigilata o con la condizionale, al passato, più o meno recente, che la politica non è in grado né di analizzare né di superare. È chiaro dunque che la letteratura, declinata nello scrivere e nel leggere, nel dare i nomi alle cose e nel decidere di utilizzarli, è un esercizio essenziale di dialettica e dunque di democrazia, più efficace nell’analisi di quanto sia l’attuale classe politica. «Il lato oscuro di una persona è qualcosa di molto esclusivo, per ovvie ragioni. E’ già difficile da accettare in sé, figuriamoci accettare il fatto che non è nemmeno così straordinario e che ce l’hanno tutti».

Chiara Valerio

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