29 febbraio 2008

"Torino Sette – La Stampa"

Quell’equilibrio da trovare.

Trentatré anni di vita, due romanzi e un libro di racconti all’attivo, tutti e tre da Einaudi. Ora, da Garzanti, questo romanzo che s’intitola «L’equilibrio degli squali», con cui Caterina Bonvicini approda al suo primo libro veramente maturo. Una storia di sofferenze ambientata dentro una cornice compatta e coerente. Per la verità, più che una cornice, perché c’è qui la consistenza diffusa di una Torino multipla e cangiante, che nel volgere delle stagioni si trasforma in un personaggio di splendida efficacia narrativa. Non fondale, insomma, ma presenza viva (per ricordare una pur diversa Torino, ma così fortemente necessitata dalla storia, credo di dover risalire al romanzo di Elena Ferrante, «I giorni dell’abbandono»).

E questo non è un dato da poco. Ma poi a tenersi ben salda è l’intera costruzione. La Bonvicini ama da sempre meccanismi numerosi che domina con il gusto di una orologiaia di fino. Oppure storie folli o balzane che rivelano una loro forza segreta, capace di andare alle domande essenziali della vita, che poi alla fin fine riguardano i sentimenti primi, il nostro desiderio di felicità. Di nuovo, qui, c’è l’idea dominante dell’«equilibrio», di cui si riempiono la bocca i personaggi più «squilibrati», più inquieti, più smarriti, più egoisti, più sconcertanti, più confusi. Se è vero che la questione della loro vita – il binomio menzogna- verità – continua a essere la dominante di una comune ricerca di destino.

A incrociarsi, tre fili: una giovane donna (un’artista-fotografa) che dice io, figlia di una madre suicida e di un padre che vive lontano indagando sulla vita dei pescecani. Il secondo piano è quello del padre che manda alla figlia dei video in cui raccoglie la cronaca delle sue immersioni oceaniche, decantando il mirabile equilibrio dei «suoi» squali (mentre la figlia di squali popola le sue visionarie foto torinesi). Il terzo è quello delle lettere (mai spedite) che la madre ha scritto ad un amico e che la figlia legge ad una ad una, incrociano i ricordi personali (il trauma del suicidio) e la sofferenza delle scoperte che viene via via facendo.

Dentro una struttura narrativa di questo tipo, la figlia ha un matrimonio fallito (ma fino a che punto?) e due uomini che ruotano intorno al suo mondo come due naufraghi. Il padre ha un’altra donna che a sua volta ha due figli. La madre – attraverso le lettere – rivela i risvolti di una vita risucchiata nel male oscuro che l’attanaglia. E tutto si muove in una negatività diffusa e depressa in cui però – nonostante tutto – affiorano i brandelli di un’irresistibile vitalità e persino gli avvisi di un’ironica e redimibile, se non addirittura redenta, fragilità. Nulla mai di definitivo nel cuore dell’uomo, ma un piccolo sito di probabilità, sì.

Quale equilibrio, infine? Dentro una Torino di illuminante bellezza («Vuota, elegante, misurata, Torino era pazzamente bella»), ancora e sempre il coraggio dell’«equilibrio» da trovare.

Giovanni Tesio

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