10 giugno 2018

"L’Espresso"

Quello che i diamanti raccontano

Il mare, a custodire misteri: spiaggia d’inverno, con le onde che si increspano sotto patine di ghiaccio e gabbiani che strillano tuffandosi nel vento. O mare greco, yacht e nuotate ad alto tasso alcolico. La Storia, con la follia delle guerre nascosta nei destini: la Seconda guerra mondiale; il conflitto nei Balcani. Il noir: malavita che si mischia all’alta società newyorchese nell’una; ai salotti milanesi nell’altra.

L’una è Jennifer Egan, tra le più importanti scrittrici americane degli ultimi decenni, in libreria con “Manhattan Beach”. L’altra è l’eclettica ed elegante Caterina Bonvicini. Autrice che, all’undicesima pubblicazione, ha ceduto alla tentazione del noir: in “Fancy Red”. Un libro costruito come un ottaedro, la struttura del diamante, otto facce triangolari per altrettanti capitoli. Col gusto evidente di giocare coi generi narrativi: squadernarli, ricomporli. Metterli alla prova. Una tendenza che rimbalza e si rinnova tra scrittori di latitudini e lingue diverse. E da lì inizia questa conversazione sul romanzo contemporaneo.

Ammesso che la divisione per generi abbia ancora un senso, un’impressione forte che si ricava dai vostri libri è il gusto per lo sperimentalismo: forme codificate di scrittura si mescolano. E convivono.

Jennifer Egan: «I generi sono divertenti perché sono associati a determinati meccanismi e storie. Per lo scrittore rappresentano un vantaggio: poiché l’oggetto della narrativa è la compressione estrema – cristallizzare le complessità della vita e della percezione umana in uno spazio relativamente piccolo – invocare un genere guida le aspettative del lettore senza che l’autore debba preoccuparsene. Rimanere pienamente e prevedibilmente all’interno del genere, però, può essere limitante. E io desidero sempre fare qualcosa che viola o stravolga le aspettative del lettore. Ne “La fortezza”, ad esempio, volevo combinare il thriller gotico con l’umorismo “slapstick” (ndr: fondato su gag e sulla comicità del corpo). E in “Manhattan Beach” l’obiettivo era fondere tre generi molto diversi tra di loro: il romanzo storico, il noir e il romanzo di mare. Quello che ho trovato, con sorpresa, è che il genere noir e il genere “mare” hanno molto in comune: come il senso di minaccia esistenziale. In un caso, la minaccia nasce dall’alienazione della vita urbana, nell’altro dal mondo naturale».

Caterina Bonvicini: «Una delle ragioni per cui amo tanto l’opera di Jennifer Egan è la sua versatilità. Non è mai uguale a se stessa. È una sfida che condivido. Anch’io ho sempre cercato di misurarmi con generi diversi: ho cominciato con un romanzo storico, un romanzo epistolare (“Penelope per gioco”), poi ho scritto un romanzo a tema (“Di corsa”), una raccolta di racconti (“I figli degli altri”), un romanzo di formazione (“L’equilibrio degli squali”), uno sul cancro dieci anni prima che diventasse un genere consolidato (“Il sorriso lento”), un feuilleton sulla storia italiana (“Correva l’anno del nostro amore”) e una commedia (“Tutte le donne di”). Arrivata a questo punto, morivo dalla voglia di sperimentare il noir. L’ho trovato il genere più affascinante di tutti. Almeno per un’amante della struttura come me. Il noir ti contiene, ti costringe alla compattezza, e puoi spaziare dentro questo perimetro fin che vuoi, senza correre il rischio di perderti».

Ha piegato il romanzo di genere alla realtà, inserendo temi attuali e scomodi.

Bonvicini: «La sfida è stata proprio questa. Spesso i romanzi di genere sono troppo rassicuranti: ti portano dentro la morte solo per fartela dimenticare. La letteratura invece deve turbare, deve essere una “minaccia” per il lettore e per l’autore stesso, come dice Jennifer Egan. Per questo in “Fancy Red” il senso di morte è così presente – e non ti lascia scampo – e non c’è nessuna soluzione riposante. Ho usato il romanzo di genere per parlare di argomenti scomodi come la distribuzione della ricchezza o l’assedio di Sarajevo. Il racconto di Sarajevo è un condensato di orrore a cui nessun thriller può arrivare. E il tema della miseria, ossessivo, è più violento di qualunque omicidio».

Semplifico: le donne sono più brave degli uomini a scrivere noir?

Egan: «Non mi sono mai posta questa domanda. Anche perché sono sempre riluttante a generalizzare su capacità e risultati basati sul genere: tendiamo a trovare ciò che stiamo cercando, ed è così che funziona il pregiudizio. Storicamente, sia uomini che donne hanno scritto noir eccellenti. Penso a due nomi per primi: Patricia Highsmith e Raymond Chandler».

Bonvicini: «Mi è capitato di leggere tante pessime gialliste di fama internazionale, molto alla moda, lontane anni luce da un Chandler o da un Simenon. In compenso, secondo me il più grande scrittore di noir del Novecento è Patricia Highsmith. Voglio aggiungere però che, al di là del noir, in questo momento storico, trovo molto più interessante il lavoro delle donne di quello degli uomini. Soprattutto nella letteratura italiana. Detto questo, quando leggo non mi pongo il problema. Un bel libro è un bel libro e basta, può averlo scritto anche un gatto».

Anche al di fuori della letteratura le donne stanno attraversando un passaggio storico. L’attenzione sulle disparità di genere è forte. La denuncia antimolestie è globale. Avete anche voi l’impressione che la strada verso l’antisessismo sia più corta?

Egan: «Lo spero! Sicuramente avverto nell’aria qualcosa di profondamente diverso da ciò che ho sentito finora. Ed è stato strano assistervi, avendo appena scritto “Manhattan Beach”. Al Brooklyn Navy Yard (ndr: doveAnna, la protagonista del romanzo, diventa la prima donna palombaro) alle ragazze non era permesso andare sulle navi per più di un anno per paura che gli uominial lavoro con loro non fossero in grado di controllarsi. Pensavo fosse una paura antiquata, evidentemente  no!».

Bonvicini: «Sicuramente è cambiato il clima. Ma tutta questa attenzione alle molestie non risolve il problema principale, che è quello della parità. In Italia siamo ancora lontani. Persino nel mondo letterario, abbastanza maschilista. Ho dedicato questo romanzo alle mie amiche scrittrici, ma non come gesto provocatorio. Volevo semplicemente ringraziarle per essere quello che sono: donne estremamente intelligenti, che mi fanno respirare un’aria più buona».

Non c’è solo il divertissement di scompaginare i generi narrativi. Mi sembra che nel vostro modo di intendere la scrittura condividiate l’attenzione per lo studio e per ladocumentazione. Egan ha confessato il piacere di fare ricerche per “Manhattan Beach”. E Bonvicini si è calata nell’universo tecnicissimo dei diamanti. Come avete lavorato?

Bonvicini: «Il bello della letteratura è che ti costringe a studiare cose di cui non ti saresti mai occupato. Io non sapevo niente di diamanti prima di scrivere “Fancy Red”. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire il titolo che poi avrei scelto. Ma un giorno ho preso un caffè con una gemmologa di Sotheby’s, che diceva: “I diamanti mi piace guardarli, non possederli” e ho avuto un’illuminazione. Ecco il correlativo oggettivo che cercavo per raccontare il grande baratro fra ricchezza estrema e miseria estrema. Non sapevo da che parte cominciare. I gioielli non mi piacciono, le pietre preziose non mi interessano. Mi sentivo in un territorio estraneo. Ma è il demone narrativo che comanda. I romanzi ti costringono a imparare anche quello che non vuoi, decidono loro. E questo è affascinante: sei al loro servizio. Non te ne frega niente dei diamanti? Al romanzo non interessa. Ti risponde: Tesoro, che ti piaccia o no, ora ti tocca la gemmologia. E tu ubbidisci. Naturalmente ho fatto una fatica bestiale. Non capivo i termini tecnici, era come imparare una lingua nuova. Oggi non sono in grado di distinguere un rubino da un diamante rosso, ma un lettore non lo può sospettare. E solo questo conta».

Egan: «Per circa cinque anni, ben prima di cominciare a scrivere, ho condotto ricerche istintive, un po’ casuali: se sentivo parlare un anziano newyorchese con buona memoria lo intervistavo. Ho partecipato a una riunione di sommozzatori dell’esercito e ho indossato una vecchia muta da quasi cento chili. Ho trascorso del tempo presso la Brooklyn Historical Society leggendo collezioni di lettere. Ho intervistato uomini e donne che avevano lavorato al Brooklyn Navy Yard nella Seconda guerra mondiale. Ho anche preso l’abitudine di vagare per le strade di New York fotografando abitazioni del periodo prebellico. Senza sapere cosa avrei fatto con questi materiali. Una volta che ho iniziato a scrivere, nel 2012, la ricerca si è concentrata. Ho trascorso del tempo a San Francisco, per fortuna mia città natale, dove è ormeggiata una Nave della Libertà funzionante. A San Francisco c’è anche un’importante biblioteca marittima, che non solo possiede molti libri rari su immersioni e vela, ma anche centinaia di manufatti della Seconda guerra mondiale, accuratamente conservati. E per anni ho visto fiction sulla prima metà del Ventesimo secolo, prendendo appunti su dettagli, trame, riferimenti culturali, memorie collettive. Non importava se buona o cattiva fiction: tutto poteva essere utile».

Bonvicini: «Io ho studiato moltissimo la guerra in Bosnia. Leggere diari e lettere certe volte era un supplizio, ma ero così coinvolta che non mi pesava. L’ho capito quando sono andata a Sarajevo con mio marito. Ero una specie di guida della morte molto preparata: qui è successo questo, là quello. A un certo punto lui si è sentito male. Un pomeriggio mi ha chiesto sepoteva rimanere in camera perché non ce la faceva più. Pochissimi conoscono idettagli dell’assedio. È stata una guerra rimossa, soprattutto dall’Europa. Invece è fondamentale perché ha anticipato le tragedie del secolo dopo, il grande fallimento di una società multietnica e multiculturale».

La storia contemporanea è centrale nei vostriromanzi, ma si scopre con sguardo intimo, svela verità nascoste. Durante la lettura si attraversano di continuo continenti. Ci si imbatte in temi internazionali: la lotta per la parità, le urgenze ambientali. Alcuni critici parlano esplicitamente di Global Novel. Sentite di farne parte?

Egan: «È vero, molti di noi stanno affrontando nei romanzi gli stessi temi, dai problemi ambientali a quelli tecnologici. E condividiamo una storia di conflitti globali che hanno modellato il presente. Mi piace pensare che il mio lavoro abbia una rilevanza globale, ma mi sento una scrittrice molto americana. Penso anche che alcune delle mie preoccupazioni, come l’auto-invenzione, siano piuttosto americane. E in “Manhattan Beach” esploro una verità poco vincente ma tipica della vita americana: il nucleo profondo della violenza alla base del nostro Paese e della nostra cultura».

Bonvicini: «Quando ho letto “La figlia” di Clara Usón e “Tante piccole sedie rosse” di Edna O’Brien, cioè una scrittrice spagnola e una irlandese che parlavano della guerra in Bosnia, ho capito di non essere costretta a raccontare la storia italiana solo perché sono una scrittrice italiana. Sicuramente “Fancy Red” è un romanzo globale, anche se in parte è ambientato a Milano. Nei flashback si salta da un Paese all’altro. Per compensare questa vastità, avevo bisogno di un’unità narrativa compatta e rigorosa come quella del noir di stampo hitchcockiano, psicologico,senza investigatori . Dato che i mondi attraversati sono tanti, ho costruito la tensione sulla claustrofobia».

In Italia sta diventando ricorrente un dibattito che proprio L’Espresso ha proposto: la qualità della scrittura letteraria. La prospettiva di un mercato internazionale riduce l’attenzione allo stile, a favore di un linguaggio standard e povero, abbiamo ipotizzato. Condividete la preoccupazione? Da dove provengono, oggi, le voci più interessanti?

Egan: «Una sfortunata frattura si è verificata tra narrativa “convenzionale” e “sperimentale” anche nella letteratura americana. Io sono sempre alla ricerca di un lavoro che compia passi in avanti dal punto di vista strutturale ma che lo faccia anche con un respiro ambizioso. Ma ci sono diversi autori che combinano questi aspetti. Penso all’eccellente lavoro compiuto in lingua inglese da Zadie Smith, Hillary Mantel, Chimamanda Ngozi Adichie, Don DeLillo, Teju Cole, Lauren Groff, Karen Russell, Tom McCarthy, James Hannaham».

Bonvicini: «Parlavamo di generi, che hanno regole precise, molto interessanti da capire, per rispettarle o infrangerle. Lo stile non ne ha. Secondo me, le parole devono solo adattarsi a quello che raccontano. È il loro umile compito, e questa umiltà è difficile. Ogni oggetto richiede il suo tono, la sua voce, che va trovata per l’occasione. Ci sono due tipi di scrittori: quelli che hanno una loro musica interna e la adattano a ogni situazione, e quelli che la cambiano a seconda della storia da raccontare, pur mantenendo una loro riconoscibilità. Io appartengo alla seconda categoria, e credo anche Egan. Non credo negli sperimentalismi fine a se stessi, spesso inutili compiacimenti che mancano di rispetto al lettore».

Vorrei parlare di disparità sociale, che nei vostri libri sottolinea le personalità, influenza le relazioni. I diamanti sono ideali per amplificare le diversità. Scrive Bonvicini: «Sono condannati a guardare da vicino la miseria estrema e la ricchezza estrema. Solo loro conoscono questi due opposti che non si toccano mai».

Egan: «A me piace guardare le cose dal maggior numero di angolazioni possibili. Un romanzo che parla solo di persone ricche racconta solamente una piccola parte della storia».

Bonvicini: «La disparità è uno dei temi più forti di “Fancy Red” e un insolubile problema del presente. Ho scelto i diamanti perché lo esasperano. Prendiamo due bambini, magari di sette anni. Una si chiama Josephine e sta in Cina e riceve in regalo dal papà due diamanti rosa da quaranta milioni di dollari che vengono chiamati come lei. E l’altro, della stessa età, sta in Sierra Leone. Lo drogano, lo armano di kalashnikov, gli incidono con la baionetta la scritta Ruf sul braccio e gli chiedono di uccidere i suoi genitori. La figlia del miliardario cinese cosa può dire? Grazie, papà, che mi hai comprato due Fancy Pink. Il bambino della Sierra Leone spara e basta, altrimenti l’esercito ribelle che controlla le miniere gli taglia un braccio col machete. Chi conosce il mondo? Nessuno dei due. Ne vedono solo una parte. I diamanti possono raccontarlo intero, da un estremo all’altro. Solo che sono delle stupide pietre, insensibili».

Oggi la narrazione non prescinde dalla tecnologia. Egan ha parlato di come i media influenzano le relazioni umane. In Bonvicini ci sono pedinamenti digitali e vari riferimenti a Internet. Che rapporto avete coi social network?

Egan: «Sono più interessata alla tecnologia da una certa distanza – come influenza la vita delle persone – di quanto non lo sia in concreto. Gran parte dell’esperienza tecnologica mi sembra una gigantesca perdita di tempo: guardare video, lasciarsi ossessionare da ciò che fanno gli altri. Uso i social media per esempio per far conoscere certe letture. Ma non posto nulla sulla mia vita privata. Mi sembrerebbe una falsità, curare impressioni per dare un’idea di felicità. Da scrittrice è un universo affascinante. Lo tengo d’occhio, a distanza appunto».

Bonvicini: «Ho abbandonato Facebook anni fa e uso poco Twitter. Ma nel mio lavoro la tecnologia è centrale. In “Penelope per gioco”, nel 2000, paragonavo la grafomania del Settecento alla svolta dell’email. In “Tutte le donne di” ho inserito gli emoticon. In “Fancy Red” il narratore è chiamato per nome dagli algoritmi e riceve messaggi affettuosi esclusivamente dai siti commerciali. Ho trovato interessante l’esperimento di Egan con “Scatola nera”, quando ha scritto una spy story a misura di tweet».

Si può fare narrativa sui social?

Bonvicini: «Probabilmente sì. Io non potrei mai, un po’ perché sono una fanatica della struttura, e un po’ perché lavoro a strati, tra mille stesure. L’immediatezza mi innervosisce. La considero un risultato».

Sabina Minardi

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