30 ottobre 2010

"Il Messagero"

Il sorriso lento, la morte come sentimento nelle storie narrate dalla Bonvicini.

Di educazioni sentimentali, in letteratura, ce ne sono molte, mancava, per, un’educazione sul sentimento della morte, sulla perdita, o “assenza”, come viene detto spesso nel libro, insomma, un’educazione al lutto sotto forma di romanzo. Certo, di morte nei romanzi se ne parla da sempre, il fatto, per, che in questo bel libro di Caterina Bonvicini, “Il sorriso lento”, il concetto di dipartita esce fuori in tutti i suoi registri e il lettore, proprio come in un supermercato, può andarsi a scegliere quello che più gli serve.
Due storie parallele: una d’amicizia e una d’amore. Clara e Lisa, due donne giovani, amiche da tanti anni, e Lisa che a un certo punto si ammala poco dopo aver messo al mondo un figlio. L’altra, l’amica del cuore, le starà accanto fino all’ultimo. E poi un uomo e una donna, Anna e Ben, lei giovane e lui ormai al declino. Un ex grande amore tra un famoso direttore d’orchestra e una cantante lirica. Lei si ammala e lui, meno assiduamente rispetto all’altro caso, la assiste.
In realtà sono entrambe due forsennate storie d’amore, perché anche l’amicizia lo è, chissà, forse addirittura in modo più puro, più assoluto, quando è così profonda come in questo romanzo. E nell’ospedale in cui le due giovani donne morenti sono ricoverate, il caso vuole che i due che le assistono si incontrino. No, non ne nascerà una storia d’amore, nascerà però da parte di Clara la necessità di stabilire un contatto con chi è convinta stia soffrendo quanto lei. È un desiderio di condivisione quello che prova, perché lei, da quando Lisa è morta, non fa che tornare indietro, la testa sempre rivolta al passato, come se dopo quella morte il mondo si fosse fermato impedendole di fare altri passi. Ma non è tanto il dolore della morte a paralizzarla, sono i ricordi intensi del passato, il desiderio di non dimenticare quella giovinezza che or le appare spensierata.

Ed ecco che la morte si riveste di vita, di un desiderio quasi sensuale di ogni forma di vita. Il cibo, l’alcol, le serate durate all’infinito con gli amici, gli amori passeggeri e quelli duraturi, che durano miracolosamente negli anni. La meraviglia è che tutto si confonde e si mescola, e che le stagioni della vita sono tutte disperate, non ce n’è una che si salvi. Nessuna età è mai completamente felice perché nel presente non è possibile riconoscere niente di stabile, la stabilità arriva dopo, quando il presente passa, e la stabilità raggiunta si è però fermata laggiù.
Oggi, nel qui ed ora, tutto ricomincia daccapo, con lo stesso bulimico desiderio di far combaciare pezzi sciolti. Si può guardare al passato e dire che è stato bello, completo, ma poi si va avanti con la stessa gioiosa difficoltà, quella che fa affondare le unghie nella terra dove qualcuno è sepolto, quasi si potesse raggiungerlo. Ma questo lo fa chi è ancora giovane, lo fa Clara che crede nell’eternità dei sentimenti, non certo Ben che nel suo personale declino ha trovato solo l’equilibrio del dimenticare in fretta, la capacità di deludere senza provarne vergogna. Per paradossale che possa sembrare, la bellezza della vita, la sua perfezione irraggiungibile, la troviamo solo nello sguardo di chi è malato e sa che sta per morire. Solo loro sanno quanto tempo hanno sprecato loro e stiamo sprecando noi, ma lo sanno solo per loro stessi, non riescono a comunicarcelo.
Questa è la riuscita invenzione del romanzo di Caterina Bonvicini, la sua capacità di farci vedere la morte come una maschera della vita, qualcosa che mescola le carte confondendole, insomma, barando. E alla fine del libro ci si arriva di corsa, con il solo rimpianto di averlo divorato troppo in fretta.

Romana Petri

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