4 gennaio 2017

"Avvenire"

Un intreccio al femminile

E’ la vigilia di Natale del 2014 quando, a casa Fumagalli, a cena ormai iniziata, arriva all’ottantanovenne Lucrezia un sms del figlio Vittorio, il capofamiglia, professore universitario e romanziere in crisi: «Scusatemi. Ho bisogno di prendere un anno sabbatico anche dalla mia vita». Intorno al tavolo ci sono tutte le sue donne (Tutte le donne di s’intitola, infatti, questo bel romanzo di Caterina Bonvicini), «sette pazze che cercano di spacciarsi per vittime, oscurando la principale», come le definisce la detective che si occuperà del caso. Conviene presentarle una a una: in effetti, oltre che personaggi, costruiti con vero talento psicologico e critico (di critica sociale), valgono anche come la rete di relazioni entro cui si palesa progressivamente, sino al colpo di scena finale, il giorno di Sant’Ambrogio, la figura dell’unico uomo importante della vicenda, se si esclude qualche comprimario.
Di Lucrezia s’è detto: madre ingombrante e famosa designer ancora in attività, ironica e disillusa, Francesca, cinquantasette anni, è invece la sorella dello scomparso: docente universitaria di Psicologia, un marito suicida e un figlio, bisbetica e invadente, «una donna che non è stata mai capace di cercare la felicità». Poi ci sono le due mogli di Vittorio: la prima, la sessantunenne Ada, brillante ed egotica giornalista, coetanea del marito, conosciuto sin dai tempi dell’università; la seconda, Cristina, quarantasei anni e un dentista come amante, la quale pretende di pianificare la vita del marito, ma anche di tutti i suoi familiari. Quindi, due figlie, una per matrimonio: Paoletta, trentatré anni, «la meno glam della famiglia», obesa e malvestita, tassista per spirito di contraddizione; Giulia, sedicenne compulsiva, non solo col cellulare. Infine Camilla, ventisei anni e «masochista sentimentale», amante di Vittorio, ufficio stampa in una casa editrice («Ma basta un attimo e sei solo una badante di una vecchia scrittrice che devi accompagnare in bagno»), invitata alla cena, chissà se per dispetto verso il marito o volontà di controllo totale, da Cristina.
Siamo, se si vuole, ricondotti a quel clima amaro e perfido, lucido e secco, da grande commedia tra Osborne e Pinter, ma raddolcito e rivivificato dall’umido vento dei sentimenti, e tradotto dentro una famiglia perfettamente italiana e borghese, allargata e familista. Bonvicini procede con abilità straordinaria nel restituirci ogni rifrazione e complicazione, ogni ambiguità e antifrasi, ogni evidenza e reticenza, nei modi di quella strenua limpidezza che le è consueta e che vale anche come impegno etico, secondo un processo in cui niente è mai completamente come sembra. Lo capisce subito Paoletta, la più ferita e deragliante, quando si trova a parlare con la giovanissima amante del padre: «Ma l’uomo di cui mi parlava Camilla non era mio padre. Era una persona che non conoscevo». Nessuno è mai come abbiamo creduto di conoscerlo: tanto meno chi abbiamo così amato. Dicevo del colpo di scena finale, che ha a che fare con un assai titubante ritorno, con la Sardegna e con un discorso folto di interrogativi sull’amore e sull’identità. La cui verità profonda Bonvicini affida a una citazione dell’Alexis, il romanzo d’esordio di Marguerite Yourcenar: «Vi chiedo perdono, con la maggiore umiltà possibile, non tanto di abbandonarvi, quanto di essere restato così a lungo».

Massimo Onofri

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