21 febbraio 2016

"La Lettura - Corriere della Sera"

Vittorio e le sue sette donne: un intreccio di solitudini

Dopo la sostanziale linearità di Correva l’anno del nostro amore, Caterina Bonvicini (1974) con Tutte le donne di torna alla più composita struttura narrativa di L’equilibrio degli squali (2008) e sorriso lento (2010), di cui si rinvengono talune costanti, quali una vicenda affidata a più registri narrativi ed espressivi, messaggi affidati a strumenti elettronici (là email, qui WhatsApp), rinvenimenti di messaggi del passato (là lettere, qui email), la presenza della musica o anche di malattie (depressione, cancro), una città coprotagonista (là Torino, qui una Milano assai più viva) e altro ancora. Il tutto però depositato in un romanzo davvero nuovo, che scorre con grande fluidità in un crescendo non privo di sorprese nel capitolo conclusivo.
Un romanzo che si dipana nell’arco di un anno, scandito su date quali Natale, Carnevale, Pasqua, Ferragosto e Sant’Ambrogio (7 dicembre), ciascuna di esse — salvo l’ultima — affidata a una struttura da «girotondo» alla Schnitzler. Perché ogni festività è vissuta da sette voci che si susseguono con modalità espressive e ordine di successione differenti: da Lucrezia, ottantanovenne madre di Vittorio, scrittore in decadenza dopo una vittoria al Campiello, alla sorella di lui Francesca; all’ex moglie Ada e alla prima figlia Paoletta; alla moglie attuale Cristina e alla figlia diciannovenne Giulia; alla giovane amante Camilla. Una famiglia allargata che a Natale si ritrova attorno a una tavolata organizzata da Cristina, in attesa d’un Vittorio che non si presenta scusandosi con un enigmatico sms e scomparendo, con successivo intervento della polizia (coi due poliziotti i soli personaggi deboli del romanzo).
Donne (ma poi anche Vittorio) che grazie al forte senso della parola e del ritmo dell’autrice si svelano raccontandosi con voce, accenti ed espressività proprie e con un io narrante specchio preciso delle rispettive personalità (tutte sottilmente disegnate dalla Bonvicini), oltre che delle loro diverse condizioni sociali: da Ada, giornalista e scrittrice, cui è concessa anche la suddivisione delle proprie riflessioni in due diversi momenti all’interno del capitolo; a Paoletta, tassista dopo la scelta di abbandonare il giornalismo impostole dalla madre; a Giulia, col suo gergo giovanile; alla possessivamente egocentrica Cristina, che cerca di calare sulle persone il suo rapporto di dominazione con le cose; senza dimenticare la straordinaria voce di Lucrezia, celebre designer, che evidenzia la sua tota- le indipendenza e voglia di vita e di sornione controllo di sé, più che delle situazioni, proprio nella gestione d’un incalzante io narrante mono-dialogico, che non concede spazio agli interlocutori, riassorbendo nel suo dire le stesse domande altrui.
Ma la raffinatezza stilistica la si coglie soprattutto nelle scelte espressive di Camilla e Francesca: ove il tu narrativo della prima sottolinea la sua sentita estraneità a quell’ambiente familiare; mentre nel caso di Francesca, vedova dopo il suicidio del marito, psicologa e docente universitaria, donna senza desideri avvolta nella sua «immensa solitudine», la terza persona ha l’aspetto d’un io riflesso, di chi si spersonalizza aggrappandosi alle formalità.
Dialoghi e racconti che disegnano un quadro di famiglia allargata che in taluni momenti ha tratti da «nodo di vipere» alla Mauriac e in altri certa crudeltà noir alla Maugham; proprie d’una commedia amara che però la Bonvicini, qui alla sua prova più matura, viene stemperando grazie a una scrittura di grande levità e finezza, partecipe del dolore di fondo che percorre quelle anime di donne che a lungo si sono guardate come avversarie e che ora, per l’improvvisa assenza di quel Vittorio che apprendono di non conoscere veramente, si sentono «troppo nude e troppo sole»; vivendo la sensazione d’essersi «perse qualcosa»: soprattutto la mancanza di «emozioni»; e iniziando un riavvicinamento che fa loro rigustare il senso della quotidianità.
In tal senso questo romanzo di profonde e mascherate solitudini e di non-rapporti familiari e di coppia, ma soprattutto di molte fughe e nascondimenti — quelle di queste donne da se stesse —, si fa anche per certi aspetti «romanzo di scioglimento». Quello scioglimento che non giunge ancora per Vittorio, che ha ormai «il passo di un uomo che è cambiato», grazie alla pur tardiva scoperta di se stesso favorita dall’umanità del suo traduttore Pieter e alla capacità di instaurare un maturo rapporto con la propria solitudine. Perché, ancora in cerca d’una propria identità, come il padre dell’Equilibrio degli squali, a Vittorio tocca ora scendere dentro il buio del proprio abisso interiore, e auscultarsi. E riandarsene, da uomo forte.

Ermanno Paccagnini

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